“Oliva Denaro” e “La Scuola Cattolica”. Una critica dell’educazione dei maschi italiani.

Ho da poco terminato la lettura di due romanzi. “La Scuola Cattolica” di Edoardo Albinati (Rizzoli, 2016) e “Oliva Denaro” di Viola Ardone (Einaudi, 2021).

Due romanzi apparentemente diversi, che narrano storie collocate in contesti sociali e culturali distanti. Il primo, un quartiere residenziale della Roma degli anni ’70, nel pieno degli anni dello stragismo e delle contestazioni studentesche e operaie, che fa da sfondo al Delitto del Circeo. Il secondo, un piccolo paese della Sicilia del secondo dopoguerra, nel quale si muove una giovane donna che si ribella ad una condizione di sottomissione e cerca di emanciparsi da una soffocante realtà patriarcale e maschilista.

Il patriarcato è, di fatto, ciò che hanno in comune questi due contesti. Ossia, un insieme di precetti e norme non scritte che struttura le identità di genere e, insieme con queste, le relazioni sociali, nonché la psiche individuale.

La non aderenza a tali norme implica lo stigma del disonore, l’ostracismo, la messa ai margini della società, l’essere relegati al ruolo di outsider, oggetto di sprezzo e derisione.

Così, la donna single diventa la zitella che nessuno ha voluto. Oppure la ‘brocca rotta’, la ragazza che ha perso la verginità prima del matrimonio e che, magari costretta alla prostituzione come unica via per guadagnarsi da vivere, può essere liberamente abusata. Allo steso modo, l’uomo che non rispetti determinate caratteristiche di ‘virilità’, diventa il ‘ricchione’, l’impotente, il fallito, il buono a nulla.

Buono a nulla è, infatti, agli occhi della stessa moglie, Salvo Denaro, il padre di Oliva nel romanzo di Viola Ardone. Un uomo che si sottrae agli schemi del capofamiglia siciliano e che decide di sostenere la figlia nel suo progetto di emancipazione, incoraggiandone la passione per lo studio e per i libri e assecondandone il desiderio di disporre liberamente della propria vita sentimentale. E’ grazie all’appoggio del padre che Oliva riesce a sfuggire al matrimonio con il suo stupratore. Ed è sempre grazie al padre che riuscirà a coronare il sogno di diventare maestra di scuola e ad emigrare verso il continente.

Nel romanzo di Albinati, ‘froci’ si sentono e vengono considerati coloro che non seguono il copione dei comportamenti del maschio eterosessuale. Al centro di questo copione ci sono un certo cameratismo e una violenza di linguaggio riferito alla donna che preconizza l’uso e l’abuso del corpo femminile come modalità primaria di interazione con essa. Lo stupro diviene, pertanto, la metafora di una società violenta che trova nella sopraffazione del più forte ai danni del più debole, e nella spinta costante all’accaparramento e allo sfruttamento, la sua ragion d’essere.

D’atra parte, cosa sottendono la retorica del ‘maschio alfa’, la narrazione dell’uomo di successo, l’immagine stereotipata delle donne in lingerie e pose provocanti che la cultura del consumo ci propone anche quando si tratta di vendere un set di tazze da caffè, se non non logica del possesso declinato in termini sessuali, dove però è l’uomo a possedere la donna? Cosa ci viene costantemente venduto dalla cultura del consumo che trova nei social il suo medium privilegiato se non sesso declinato in termini di sfruttamento e sopraffazione?

E cos’è il femminicidio, una volta chiamato delitto passionale, se non il portato ultimo di una nevrosi generata dallo scarto tra le immagini e la realtà, dall’impossibilità di poter corrispondere ai modelli che ci vengono imposti, dall’incapacità di accettare limiti umanamente dati all’interno di una cultura che celebra il possesso?

La critica che entrambi i libri muovono è non solo verso il patriarcato, ma verso l’educazione del maschio in Italia, profondamente intrisa da una retorica di sopraffazione, arroganza e cameratismo criptofascista, com spiega Christian Raimo sulle pagine di Internazionale.

L’assenza di una prospettiva e di una elaborazione di genere (in Italia, ma, più in generale in Occidente) è l’altro nodo critico che emerge. Ossia, l’assenza di una riflessione attenta su come l’identità maschile sia andata strutturandosi a partire da contesti socio-culturali differenti ma che, tuttavia, sono accomunati da una matrice e risvolti simili. L’italiano, l’americano e l’indiano che uccidono o sfigurano la compagna con l’acido hanno in comune, a prescindere dalla proprio gruppo sociale di appartenenza, la medesima incapacità di rapportarsi non solo con l’idea del rifiuto, ma anche con la prospettiva della libertà individuale della donna.

Parlare di humus socio-culturale, tuttavia, non equivale a giustificare la violenza. L’essere umano è pur sempre dotato di capacità di scelta, per quanto questa possa essere inficiata dai condizionamenti di un preciso contesto. E la capacità, ergo la libertà di scegliere, rende gli individui responsabili, socialmente e civilmente, prima ancora che legalmente, delle proprie condotte. Il caso di Salvo Denaro dimostra che, pur all’interno di pesanti condizionamenti, scegliere il bene e amare in maniera altruistica è pur sempre possibile.

Antonio Desiderio